martedì 21 febbraio 2012

 Piccola avventura a Vicosoprano

Non sono mai stato un “dormiglione”. Durante il periodo di scuola o dell' attività lavorativa, anche nei giorni festivi ho preferito non restare in ozio a letto oltre un certo orario , figuriamoci durante il periodo di vacanza a Vicosoprano. Ho sempre odiato “perdere tempo” quando fuori il mondo mi stava aspettando con tutte le meraviglie da scoprire con tutte le persone da incontrare e gli amici...
Durante i soggiorni in Val d'Aveto dopo una veloce “riassettata” alla persona ed una altrettanto frugale prima colazione ho cercato, con risultati apprezzabili, di vivere quanto più intensamente tutti i momenti e tutti i particolari che la vita mi ha offerto... Cose semplici, di nessun valore reale... la forma di una nuvola, il profilo dei monti che conosco talmente bene da poterlo disegnare in ogni momento senza alcuna difficoltà, il verde di Pianseiun o di Campori screziato del giallo dei fiori, una passeggiata per la “strada delle vacche” fino in Pescin o alla Bocca della Selva nel cielo azzurro di un mattino di Luglio con i grilli e le cicale assordanti già dal primo sole e un filo di fieno fra i denti... nessun valore monetizzabile ma che ricordi! che vita ho vissuto!
Non è concepibile il voler rimuovere tutto questo, ben incastonato nella mia mente. Tutto ciò è un tesoro di inestimabile valore che mi provoca una nostalgia feroce e pungente... Riguardo alle volte vecchie fotografie e mi rivedo sdraiato in un prato con gli amici che ridono e la mente senza preoccupazioni di sorta... Ad oggi non ho più quella serenità ma il vissuto mi aiuta ad andare avanti e a convincermi che (raccontando tutto questo un giorno ai miei figli, ed augurando loro di poterlo vivere), non ho vissuto invano.
E così, per raccontare un episodio che ad oggi mi fa sorridere ecco cosa ho combinato una mattina nella quale ho voluto “andare oltre” per scoprire una parte di mondo a me sconosciuta.
Era il mese di agosto dei primi anni novanta, l' estate in pianura rovente e implacabile convinse i miei genitori a farmi passare un po' di tempo in compagnia di mio fratello a Vicosoprano.
La vacanza correva via liscia con tutti suoi fatti e i suoi avvenimenti e proprio in quel giorno, era stata rispolverata la festa al Monte Dego, ribattezzata “u dì di Nonni”, durante il quale fu organizzato un servizio trasporto e una grande festa alla Chiesetta dell' omonimo Monte, appunto per gli anziani del paese che mai e mai più avrebbero avuto occasione di recarvisi.
Bisogna sapere che la festa al Dego ha sempre avuto un grande importanza per i paesi dell' Aveto e della Trebbia e con il fatto che il cambio generazionale l'aveva messa un po' “giù di moda” è stata colta l'occasione per un grande ritorno. Gran parte degli abitanti, come ai tempi d'oro, si stavano organizzando per recarvisi, molti passeggiando a gruppi, altri con i più disparati mezzi.
Decisi, dopo aver controllato accuratamente lo zaino che avrei raggiunto la vetta a piedi; volevo godermi la passeggiata in solitudine, godermi “l'assordante silenzio” della natura, scattare foto e rimirare l'ambiente che mi circondava e del quale facevo parte.
Là avrei trovato sicuramente qualche amico, qualche conoscente con cui dividere la giornata, ascoltando la celebrazione religiosa, immancabile in qualsiasi manifestazione, chiacchierando e ascoltando gli improvvisati “gruppetti canori” mai assenti durante scampagnate o feste in genere.
Partii. Il sole mattutino, complice l' aria rarefatta si faceva sentire tuttavia un leggera brezza fresca mi accarezzava evitando la sudorazione e limitando l' insorgere della sete, una sensazione di benessere mi percorreva, ero felice e l'idea del “bello” che stavo vivendo mi inebriava.
Avevo intrapreso la strada per Pian Seiun, sterrata. I cespugli a bordo carreggiata resi bianchi dalla polvere sollevata dai mezzi in transito e le rocce affioranti dell' altopiano arso dal sole, davano all' insieme un aspetto alquanto strano, quasi lunare.
Camminai per un ora che si avvicinava oramai il mezzogiorno dato l' orario e trovandomi al cospetto di una fonte, decisi di fermarmi per il pranzo. Mi rinfrescai, gettandomi acqua sul capo e tenendo immerse le mani nella vasca quindi mi sedetti all' ombra, scartai i panini, mangiai con calma e diedi fondo alla borraccia. L' acqua gelida, a contatto con le labbra mi provocò un brivido... strano, pensai, con un sole così... Tergiversai qualche istante, guardandomi intorno, al fresco di un faggio ed ebbi modo di verificare che nei momenti piacevoli o di riposo il tempo si mette a correre a dismisura non lasciando scampo ad azioni non svolte e costringendoci a lasciare in sospeso quello che si sta facendo per continuare ciò che si aveva in progetto.
Si, questa sosta inutilmente prolungata e la partenza mattutina, troppo posticipata, avevano stravolto tutti i piani della giorno, non era conveniente proseguire verso il Dego; sarei arrivato che tutto sarebbe volto da lì a poco al termine... va da sé che non potevo tornare indietro, con un tempo così bello e la libertà delle ferie estive sarebbe stato un peccato ritornare in paese e perdere un intero pomeriggio oziando.
Avvistai un sentiero che saliva verso un piccolo valico che mi avrebbe portato in breve tempo ad un posto a me conosciuto, Pescin, e raccogliendo le mie cose, lo intrapresi.
Camminai per una ventina di minuti, del sentiero rimaneva solo la traccia sulla carta topografica e qualche impronta lasciata chissà quando sul fango oramai indurito da persone e animali che tempo indietro mi avevano preceduto. Ero circondato dalla cerchia di vette familiari, sicuro di quello che stavo facendo ed ebbro di aria pura profumata di ginepro quando, all' orizzonte, spuntò da dietro ad un sorbo selvatico, la cima di una montagna, ultima propaggine della Provincia di Pavia in cui abitualmente risiedo. Brandita in fretta la fida Kodak Retina, come se il soggetto della fotografia potesse scappare, notai che le condizioni di luce e la visibilità non erano ottimali per uno scatto perfetto e cercai, abbandonando lo zainetto e lasciandolo sul sentiero come punto di orientamento, una radura che mi ricordavo presente su una particolareggiata carta geografica militare.
Ero distante cinque minuti di cammino da dove avevo abbandonato il sentiero, tornai quindi sui miei passi immediatamente dopo qualche fotografia... avvistai subito lo zaino che faceva bella mostra su un ramo ma non trovai più il sentiero. Oh bella, impossibile! mi ripetevo incredulo sorridendo.
Risalii quindi da dove avevo valicato per ritrovare le mie orme nell'erba e più mi allontanavo, più la strada si inaspriva e, arrivato nei pressi di un roveto impenetrabile, feci “dietro front”, scrollando le spalle.
"Se scendo per di qui prima o poi devo incrociare la strada provinciale per Orezzoli " pensai e fu l' ultima cosa sensata che passò per la mia mente da quel momento.
Erano oramai le quindici e le cicale non facevano nulla per rendere meno drammatico quell' afoso pomeriggio estivo, mi stordivano con quel loro stridio acuto ed il sole, implacabile ogni poco mi colpiva con i suoi raggi roventi.
Iniziai a scendere nel bosco cercando una via non troppo ripida, di tanto in tanto mi imbattevo in greti di piccoli ruscelli che la siccità aveva trasformato in zone leggermente più verdi nel sottobosco, gli scarponi iniziavano a pesare e il sudore scendeva copioso giù per il collo, inumidendo la maglietta e rendendomi preda di ogni sorta di insetto.
Il bosco finì e mi ritrovai in un ampio pianoro nel mezzo del quale, un reticolato e un albero solitario facevano bella mostra della loro vetustà e della loro tormentata vita. Rimasi sorpreso, ho sempre ignorato la presenza di qualche opera umana su questo fianco della montagna eppure, tutto era materialmente lì, davanti a me.
Mi avvicinai all' albero, un focolare improvvisato fra le pietre, toccai la cenere , era ancora tiepida; qualcuno aveva bivaccato da poco. "Non sono solo su questo pianeta" sentenziai scherzando a voce alta sentendomi osservato. Mi voltai, era solo il vento che spazzava la radura ed ogni poco giocava fra il reticolato creando strani suoni.
Tolsi lo zainetto, mi sedetti su un tronco a terra e accesi una sigaretta in attesa di riprendere il cammino. Finito che ebbi di fumare invece, mi accoccolai al sole, sull' erba fresca e con il vento che ogni poco mi solleticava il viso, mi addormentai.
Trascorse più di un’ora. Questa sosta fu l' ennesimo errore. Non avrei dovuto fermarmi, ma riprendere il cammino subito.
Il vento si era rinforzato e da Ovest nubi minacciose iniziavano a salire e ad occupare gran parte dell' orizzonte, mi svegliai di soprassalto e quasi in preda ad un angoscia tangibile, raccolte le mie cose, intrapresi immediatamente il cammino.
Continuavo a scendere e la mente materializzava una cosa piuttosto scura che volevo scacciare "no, non ti sei perso sul monte" mi dicevo mentre il sole seguitava a scendere "fra un po' sarà dietro la dorsale e nel bosco ci sarà buio", "passerai la notte qui", "gli spiriti dei morti della montagna verranno da te". Questi erano i miei pensieri e allungavo il passo voltandomi ogni poco per controllare di avere le spalle al sicuro.
Mi rivedo oggi con lo sguardo fisso verso il bosco e non posso fare altro che sorridere anche se quanto passato come molti dei ricordi che ogni tanto affiorano, mi riportano a momenti anche se drammatici, molto più sereni che non gli attuali.
Continuavo a camminare, quasi correvo quando mi si parò davanti una pineta, un brivido mi colse all' improvviso. Non so se è capitato a qualcuno di guardare attraverso i tronchi di una pineta standone ai margini. Dapprima, abbagliati ancora dalla luce esterna si vede tutto fosco, poi addentrandovisi, essendo la flora del sottobosco praticamente inesistente si può notare tutto quello che accade all' interno a perdita d' occhio, se poi si è un po' suggestionabili, si vede anche quello che non accade ma che si crede stia accadendo. Mi figuravo di avvertire un barlume lontano e di scorgere da lì a poco un cerchio di streghe in danza intorno al fuoco o qualche folletto del bosco apparire e scomparire dietro ad un fusto.
Non ero tranquillo e controllavo oramai con il cuore in gola la quantità di minuti di luce che sarebbero rimasti prima che il sole scomparisse dietro il monte. Il vento giocava fra le cime degli alberi, sibilando ed ogni raffica che ricevevo sul viso era motivo per accelerare l' andatura e controllare quello che stava accadendo intorno a me.
Toccavo ogni tronco a cui passavo vicino e cercavo di fare più rumore possibile con il bastone e con un motivetto che poco prima avevo iniziato a canticchiare. Finalmente un chiarore diffuso mi avvertì che la pineta stava per terminare e quando ne uscii , mi sentii più pulito e mi volsi indietro... vidi i tronchi neri dei pini, un fremito mi spronò a proseguire.
Il sole, come una candela che finisce la cera si spense dietro ad un gruppo di ginepri sulla vetta di un colle pelato battuto dal vento. L' atmosfera era da fine di un film western dove l' eroe di turno ritorna a casa, accolto amorevolmente dalla famiglia... qui era tutta un' altra cosa in realtà, non esistevano indiani e sparatorie ed avevo poco più di quindici anni, non conoscevo  il luogo dove mi trovassie soprattutto calava l' oscurità.
Sopraggiunse il tramonto e forzatamente dovetti attraversare un bosco di faggi. Il buio nel bosco è una cosa solida, come un telo di stoffa nera che si deve attraversare per forza, tronca il respiro, ti tocca ovunque e lo senti addosso come i vestiti bagnati, i sensi si acutizzano, la vista si affina, l' udito pure, si vedono e si sentono cose a volte non reali, astratte, la paura si fa avanti, si impadronisce del corpo ed è difficile non cadere nella disperazione più completa.
La situazione era precipitata a mio sfavore, oramai vagavo a caso nel bosco e fra intricati cespugli, continuavo comunque verso il fondo valle. La sera era avanzata e ogni minimo rumore di qualche innocuo animaletto selvatico mi faceva trasalire e mi costringeva a mettere la mano sul manico del coltello nel fodero legato alla cintura. Se pensavo al mio comportamento, ai miei sensi ed al mio stato ed ero consapevole di tutto ciò, voleva dire che ragionavo ancora e, pensando bene a tutto, non mi diedi per vinto anche se oramai mi ero proprio perso e non avevo alcuna idea. Vedevo le vette dei monti, vette conosciute ma mi era impossibile orientarmi nella boscaglia.
La disperazione aveva la meglio su tutti i miei sforzi, su tutti i miei ragionamenti... decisi di fermarmi a pensare. Mi sedetti su un sasso ricoperto di muschio con la testa fra le mani.
"La bussola, la bussola" continuavo a ripetermi e frugai nervosamente nello zaino alla sua ricerca, "se solamente l' avessi utilizzata qualche ora fa" piagnucolai sconsolato... indicava il Nord esattamente un quarto di giro ove pensavo fosse... ma a me il Nord non interessava, dovevo scendere, sempre, fino ad incrociare la strada provinciale.
Passarono venti minuti, pensavo di continuo ad una via di fuga da quella situazione e mi immaginavo di essere in compagnia di amici, in un luogo sicuro, al sole, di ridere insieme a loro: questi minuti mi sembrarono una eternità.
Guardai malinconico un cespuglio di rose selvatiche davanti a me, il tramonto oramai passato arrossava ancora leggermente le vette dei monti più alti, vedevo di sfuggita il Maggiorasca e pensai a come sarebbe stato bello essere là sopra, sul pulito, senza il bosco così incombente e con questo buio senza stelle praticamente impenetrabile... Pensai ai miei familiari a casa, in pianura alle prese con il caldo e le zanzare ignari di tutto ciò …Affranto, alzando gli occhi al cielo sospirai...
Mi alzai per riprendere il cammino, prima o poi la strada l' avrei trovata, ma c' era troppo buio... raccolsi il bastone, assicurai il coltello stringendo la cintura quando una sagoma regolare fra gli alberi mi costrinse ad aguzzare la vista. Mi avvicinai quasi correndo... "VALICO DEL PESCINO km 3"... era un cartello stradale...
Scesi, ora correvo davvero, i rami dei custi mi graffiavano il viso e le mani ma non mi importava, continuavo a scendere, gettai il bastone che oramai mi impacciava e null' altro e finalmente, con un piccolo salto poggiai il piede sul nastro d' asfalto ancora caldo del pomeriggio e mi si riempirono gli occhi di lacrime.
Ero commosso, avevo ritrovato la strada per casa, non mi era mai capitata una cosa del genere. Iniziai a cantare, da solo a voce alta, felice; cos' erano i sei chilometri che mi mancavano? Ero certo che prima o poi sarei arrivato... Ad ogni automobile che sopraggiungeva, un salto nei cespugli a bordo strada mi permetteva di non essere visto... ero partito a piedi e dovevo tornare a piedi quasi fosse questa la punizione di tanta imprudenza per essere partito da solo e per aver abbandonato il sentiero in un luogo non conosciuto.
Arrivai in paese che la notte aveva avuto la meglio su tutto, nessuno mi cercava né mi aveva cercato e la cosa mi diede un senso di solitudine e di vuoto. Ero stato lontano dal paese dodici ore circa ma con tutto quello che mi era capitato mi sembrò una vita. Varcai la soglia di casa, ripensai alla pineta, ai tronchi neri degli alberi, al lamento della brezza fa i rami, rabbrividii e sbarrai subito la porta alle mie spalle..
Il vento aveva spazzato le nubi, le stelle stavano lassù, nel nero del cielo e ogni poco una civetta con il lugubre suo verso faceva notare la propria presenza.
Quanto sopra è un piccolo racconto di una delle mie infinite avventure a Vicosoprano, qualche piccola aggiunta non ha stravolto quanto accaduto, ne ha solo arricchito un poco la trama. Ricordo veramente bene molti  attimi di vita vissuta mentre invece, di altri, mi sono rimasti solo brevi flash e mi devo impegnare affinché il poco che ricordo non scompaia anch'esso...
Lele

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